sabato 8 maggio 2010

Politica economica europea e basic income

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Politica economica europea e basic income


di Andrea Fumagalli*

Introduzione

La crisi economica finanziaria di questi anni ha acuito i malesseri dell’Europa e ha evidenziato alcune criticità nel processo di unificazione politica ed economica continentale. Tali malesseri sono riscontrabili a due livelli d’analisi, che è meglio per il momento tenere distinti anche se sono strettamente interrelati. Il primo ha a che fare con gli aspetti sociali ed economici, relativamente al modello di organizzazione della produzione e del lavoro e ai meccanismi oggi esistenti (o non esistenti) che regolano la sfera distributiva. Il secondo ha a che fare con gli aspetti di policy, strettamente dipendenti dai vincoli e dai gradi di libertà politica oggi esistenti all’interno della dicotomia: spazio pubblico nazionale, spazio pubblico europeo.

Nel presente intervento si cercherà di sviluppare questi due aspetti, alla luce delle trasformazioni della politica sociale e dell’idea del welfare state con il superamento del paradigma di produzione fordista-industriale.

In particolare, si cercherà di mettere a fuoco le contraddizioni oggi esistenti tra enunciazioni di politica sociale in parte innovative e la carenza di strumenti e di spazi dell’agire politico europeo che le renda possibili.

Una nuova idea di welfare per l’Europa

Le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi due decenni hanno reso impellente una ridefinizione complessiva e una riarticolazione delle politiche di welfare. Non sempre tale argomento ha suscitato l’adeguato interesse del pensiero economico di sinistra e alternativo. Nel
dibattito socio economico attuale, due sono le concezioni di welfare che più di altre attirano l’attenzione degli studiosi e della politica: il workfare e, in alternativa, il welfare pubblico, di derivazione keynesiana. Con il termine workfare si intende un sistema di welfare non universalistico di tipo contributivo (cioè ognuno riceve in funzione di quanto da, come già avviene oggi con la riforma previdenziale), strutturato sull’idea di fornire un aiuto di ultima istanza laddove esistano condizioni esistenziali che non consentono di poter lavorare e quindi di accedere a quei diritti che solo la prestazione lavorativa è in grado di garantire. L’idea di workfare è inoltre complementare ai progetti di privatizzazione di buona parte del welfare pubblico, a partire dalla sanità, dall’istruzione e dalla previdenza.

Essi trovano oggi fondamento nel cosiddetto “principio di sussidiarietà”, secondo il quale, nelle materie che non sono di propria competenza esclusiva, possono intervenire livelli di governo superiore (es. lo Stato) soltanto e nella misura in cui si ritiene che i livelli di governo inferiore (es. le Regioni) non siano in grado di conseguire gli obiettivi prefissati in maniera soddisfacente.

Tradotto in pratica, significa che l’intervento pubblico può avere una sua ragion d’essere solo laddove il privato non è in grado o non trova conveniente intervenire. Mentre, d’altro lato, il workfare ha come target immediato e parziale solo chi si trova al di fuori del mercato del lavoro, come i disoccupati e i pensionati al minimo sociale, e si basa sulla netta distinzione tra politiche sociali e politiche del lavoro. Un concetto dunque prettamente fordista con l’aggiunta di una cornice neoliberista, sul modello anglosassone: incentivi al lavoro e stato sociale minimo.

A questa idea di workfare, si vuole contrapporre – a sinistra – il ritorno del welfare pubblico o keynesiano. Lo Stato dovrebbe farsi carico di un intervento di stampo universalistico, in grado di garantire a tutti i cittadini (che non sempre coincidono con i residenti) alcuni servizi sociali di base, quali la salute, l’istruzione e la previdenza lungo tutto l’arco dell’esistenza (dalla culla alla tomba, secondo la famosa definizione del rapporto Beveridge del secondo dopoguerra) in cambio della partecipazione al lavoro e alla definizione di un patto sociale tra i fattori della produzione. Sul fatto che alcuni servizi sociali primari (quali ad esempio istruzione e sanità) debbano continuare a rimanere pubblici non vi è alcun dubbio. Tuttavia, con la crisi del modello fordista, vengono meno alcune precondizioni perché tale modello di welfare possa svolgere il suo compito in modo equo all’interno di un quadro di giustizia sociale.

Continua nel libro Europa 2.0.

* ANDREA FUMAGALLI, insegna Macroeconomia ed Economia Politica all’Università di Pavia e Modelli economici alternativi all’Università Bocconi di Milano. Tra le pubblicazioni: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007), con Sandro Mezzadra da curato Crisi dell’Economia globale (ombre corte, 2009). Vice presidente dell’associazione Bin-Italia (Basic Income Network). Tra gli organizzatori della MayDay di Milano. Attivo nella rete UniNomade. Siti: www.euromayday.org; www.bin-italia.org.

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